In questi ultimi tempi si sta registrando un nutrito numero di persone che lasciano l’Italia e approdano in Romania per conseguire, in pochissime settimane, un particolare titolo di specializzazione che per essere ottenuto in Italia necessita di un percorso molto più impegnativo. Ma perchè sta avvenendo tutto ciò e in che cosa consiste questa ambita qualifica?
Tutto nasce da una direttiva europea che prevede il riconoscimento delle qualifiche professionali nell’ambito degli Stati membri: in parole povere vuol dire che chi per lavoro necessita di una specializzazione, d’ora in avanti potrà conseguire il titolo non necessariamente in Italia ma farlo in qualunque Paese aderente all’Unione Europea. E dal momento in cui per ottenere la specializzazione per il sostegno, in Romania è necessario molto meno impegno, molto meno tempo e 10mila euro alla mano, sono davvero molti gli aspiranti docenti di sostegno che stanno andando in questa terra dell’Est per conseguire in fretta e furia la qualifica.
Come denunciato dall’Unicobas, si tratta di un vero e proprio business peraltro avvalorato dalla legge, e che si tratti di “un trucchetto che porta in classe persone non preparate a trattare la disabilità”. Ma in fondo, chi glielo fa fare a un aspirante docente “farsi il mazzo” con tanti esami, laboratori e tirocini con frequenza obbligatoria se può tranquillamente iscriversi ed ottenere lo stesso identico titolo in una Università europea la quale impone un percorso molto più soft?
Per quanto legale a livello comunitario, molte associazioni soprattutto legate ai diritti dei disabili, hanno protestato contro quello che viene ritenuto uno snaturamento di fatto del mestiere di insegnante di sostegno. Il MIUR promette di intervenire innalzando il livello di controllo sul percorso formativo, pertanto se sulla carta i docenti qualificatosi in Romania operano nella legalità, chi dovrà assumere potrà però strizzare un occhio a chi il percorso lo ha fatto in Italia. Ma la questione è ancora aperta e l’augurio è che possa essere trovata una soluzione equilibrata a quello che ora come ora ha tutta l’aria di essere una incredibile disparità di trattamento.
In fondo è oggettivamente iniquo permettere che possa venire riconosciuto il titolo a un docente di sostegno che ha intrapreso la via più breve e più facile, proprio come viene riconosciuto, sullo stesso identico livello, una professionalità che si è andata formando secondo un iter ben più duro quale è quello italiano.