Dalla tragedia al supporto per gli amputati: la storia di Joseph Chorba

joseph chorba

Se c’è una cosa che Joseph Chorba sente di dover ricordare alla gente, è di tenere sempre cariche le gambe prima di andare a letto, un po’ come si fa coi telefonini. I medici sono stati in grado di salvare il suo ginocchio, ma non il resto della gamba; l’articolazione della caviglia sul suo arto protesico è piena di microprocessori che gli permettono di muoversi più o meno come se non avesse mai perso nulla.

Ma non tutti reagiscono positivamente a questa condizione disabilitante. Chorba dice che i più giovani, in particolare, tendono a pensare che avere un arto robotico sia piuttosto duro. Ma l’accettazione non avviene subito. Nessuno quando perde un arto, o parte di esso, pensa che sia una cosa fantastica. C’è un enorme lavoro psicologico che deve essere portato avanti.

Questo è uno dei motivi per cui Chorba, che con sua moglie Tracey possiede TLC Orthotics and Prosthetics, ha avviato un gruppo di supporto per gli chi ha subito un’amputazione. Chorba sa che il più grande ostacolo mentale di solito ha a che fare con l’isolamento, quindi ha voluto fornire un posto per chi era in fase di pre-accettazione per trovare supporto e cameratismo.

Il gruppo di supporto creato da Chorba affonda le sue radici in un incidente nel 1969. Chorba aveva allora 10 anni. Scese in stradietroda da  un’auto parcheggiata e fu colpito da una in movimento. “Fino ad oggi, non ricordo ancora di essere stato colpito dalla macchina”.

Probabilmente è perché ha trascorso i successivi quattro giorni in coma. Durante le sue sei settimane di degenza in ospedale, i medici gli hanno rimosso la milza. Salvare la gamba, che è stata gravemente danneggiata nell’incidente, è stata la “seconda priorità” dei medici.

Ma nonostante numerose fratture e vasi sanguigni rotti sotto il ginocchio, Chorba riuscì ad usare la gamba per altri nove anni. Il problema era che la stessa aveva contratto un’infezione delle ossa conosciuta come osteomielite. Ironia della sorte, il trattamento ha finito per promuovere la diffusione dell’infezione che, all’età di 19 anni, si è insinuò vicino al suo ginocchio.

La diffusione derivava dagli innesti di pelle che i medici facevano periodicamente per aiutare a combattere l’osteomielite. Nel 1969, i medici non sapevano che i grafici della pelle erano probabilmente il trattamento peggiore che avrebbero potuto dargli. Gli innesti hanno promosso la formazione di ulcere che hanno devastato la sua gamba.

Quando la sua gamba venne tolta, Chorba dice di aver attraversato le stesse emozioni che vede in tanti pazienti con amputazione: se avrebbe mai più camminato e se qualcuno lo avrebbe amato. A dire il vero, porre quelle domande alla fine degli anni ’70, quando gli arti artificiali erano agli albori, era un po’ più complicato rispetto ad oggi. Non che sia facile oggigiorno affrontare la perdita di un arto; è solo che la tecnologia moderna è molto più avanti rispetto a quella di fine anni ’70.

Se c’è un consiglio che darebbe a coloro che hanno subito un’amputazione, è che con il progredire della tecnologia c’è meno distinzione tra vivere una vita con gli arti naturali e vivere con una protesi. I suoi pazienti indossano arti che permettono loro di correre, allenarsi, ballare, fare sport, e di apparire abbastanza bravi mentre lo fanno. In altre parole, la capacità di vivere bene con un arto protesico è tutto nella testa di una persona.

Immagine da communitynews.org

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